Carica di significati, talvolta solo
apparentemente evocati, talvolta addirittura subliminali, e pervasa
da atmosfere e pennellate volutamente (forse un po' troppo?) epiche,
Peaky Blinders ha tutti gli ingredienti per diventare la serie tv più
memorabile di quest'epoca e, soprattutto, per acquisire lo status di
“cult”. La fottuta banda guidata da Thomas Shelby, leader
familiare di una sorta di fratelli Karamazov ambientati
nell'Inghilterra industriale del primo dopoguerra, lo meriterebbe.
Vediamo perché, se ci riesco.
1)Thomas Shelby. Complesso e spigoloso,
dilaniato da disturbi post-traumatici originati dall'esperienza al
fronte, magistralmente messo in scena da Cillian Murphy, e “ambiguo”
fin dalla sua fisionomia: troppo giovane e troppo smilzo per il peso
specifico del personaggio che rappresenta. La curiosa contraddizione
non influisce sulla credibilità della sua storia, anzi ne accentua
lo spessore. Non è un caso che solo nel momento più basso della
vicenda familiare [ATTENZIONE SPOILER], ovvero il funerale di John
alla quarta stagione, Thomas riveli l'origine di tutto con un breve
discorso catartico. A noi viene quasi automatico perdonarlo o
comunque giustificarlo, ancor prima che lo facciano i suoi parenti.
2)La colonna sonora. Meravigliosa la
sigla, geniali i brani nei vari intermezzi. Spesso stranianti e
apparentemente “incoerenti” con le immagini.
3)"Distillato per estirpare la
tristezza apparentemente incurabile”. La camera si sofferma a lungo
sull'etichetta delle bottiglie di gin prodotto dagli Shelby. Triste è
Thomas, condannato alla tristezza quasi per volere divino (esser
sopravvissuto alla guerra, vedi punto 1); triste è Alfie Solomons
che pur essendo un personaggio edulcolorato e a tratti goliardico
finisce quasi per commuovere quando si trova nella condizione di
dover tradire “l'amico” Tommy.
4)Come già visto con Tommy, la
caratterizzazione dei personaggi è quasi sempre studiata al
dettaglio per allontanarsi non tanto dallo stereotipo (Luca
Changretta è molto più simile a Johnny Stecchino di quanto non lo
sia Benigni stesso nel film!), quanto dai cliché tipici del genere.
A-Arthur, il fratello più grande, non è il capofamiglia; B-John,
che ha le caratteristiche per essere il ribelle del gruppo, in realtà
è molto ligio alla causa; C-Zia Polly si presenta come donna saggia
ma finisce per cadere in squallide tentazioni; D-Ada, la sorellina
più giovane, viziata e disobbediente, che col tempo acquisisce
carisma e maturità senza però perdere i suoi valori originari;
E-Grace, esempio classico di spia bella e dannata, non dà mai
l'impressione di credere più di tanto in quello che sta facendo (il
suo doppio gioco poco credibile è una delle note dolenti della
costruzione scenica, insieme all'evoluzione forzata di Michael che si
trova nel giro di qualche mese da giocare con le bambole in campagna
a dirigere la contabilità di un'azienda multinazionale).
5)I dialoghi memorabili. Alcuni hanno
criticato l'ostentata drammaticità degli stessi, una ricerca spinta
dell'epica – la si ritrova in modo evidente anche nelle reiterate e
simpatiche scene di “marcia di gruppo” in slow motion – che
alla lunga risulterebbe eccessiva. Per me, invece, tutto ciò è ben
equilibrato dai frequenti e chirurgici momenti dissacranti, fra cui
appunto molti dialoghi, che spezzano l'aurea “drammatica” come un
coltello nel burro.
6)La regia. Di altissimo livello
considerando che stiamo parlando di una serie.

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