venerdì 5 aprile 2019

Distillato per estirpare la tristezza apparentemente incurabile

Carica di significati, talvolta solo apparentemente evocati, talvolta addirittura subliminali, e pervasa da atmosfere e pennellate volutamente (forse un po' troppo?) epiche, Peaky Blinders ha tutti gli ingredienti per diventare la serie tv più memorabile di quest'epoca e, soprattutto, per acquisire lo status di “cult”. La fottuta banda guidata da Thomas Shelby, leader familiare di una sorta di fratelli Karamazov ambientati nell'Inghilterra industriale del primo dopoguerra, lo meriterebbe.
Vediamo perché, se ci riesco.

1)Thomas Shelby. Complesso e spigoloso, dilaniato da disturbi post-traumatici originati dall'esperienza al fronte, magistralmente messo in scena da Cillian Murphy, e “ambiguo” fin dalla sua fisionomia: troppo giovane e troppo smilzo per il peso specifico del personaggio che rappresenta. La curiosa contraddizione non influisce sulla credibilità della sua storia, anzi ne accentua lo spessore. Non è un caso che solo nel momento più basso della vicenda familiare [ATTENZIONE SPOILER], ovvero il funerale di John alla quarta stagione, Thomas riveli l'origine di tutto con un breve discorso catartico. A noi viene quasi automatico perdonarlo o comunque giustificarlo, ancor prima che lo facciano i suoi parenti.

2)La colonna sonora. Meravigliosa la sigla, geniali i brani nei vari intermezzi. Spesso stranianti e apparentemente “incoerenti” con le immagini.

3)"Distillato per estirpare la tristezza apparentemente incurabile”. La camera si sofferma a lungo sull'etichetta delle bottiglie di gin prodotto dagli Shelby. Triste è Thomas, condannato alla tristezza quasi per volere divino (esser sopravvissuto alla guerra, vedi punto 1); triste è Alfie Solomons che pur essendo un personaggio edulcolorato e a tratti goliardico finisce quasi per commuovere quando si trova nella condizione di dover tradire “l'amico” Tommy.

4)Come già visto con Tommy, la caratterizzazione dei personaggi è quasi sempre studiata al dettaglio per allontanarsi non tanto dallo stereotipo (Luca Changretta è molto più simile a Johnny Stecchino di quanto non lo sia Benigni stesso nel film!), quanto dai cliché tipici del genere. A-Arthur, il fratello più grande, non è il capofamiglia; B-John, che ha le caratteristiche per essere il ribelle del gruppo, in realtà è molto ligio alla causa; C-Zia Polly si presenta come donna saggia ma finisce per cadere in squallide tentazioni; D-Ada, la sorellina più giovane, viziata e disobbediente, che col tempo acquisisce carisma e maturità senza però perdere i suoi valori originari; E-Grace, esempio classico di spia bella e dannata, non dà mai l'impressione di credere più di tanto in quello che sta facendo (il suo doppio gioco poco credibile è una delle note dolenti della costruzione scenica, insieme all'evoluzione forzata di Michael che si trova nel giro di qualche mese da giocare con le bambole in campagna a dirigere la contabilità di un'azienda multinazionale).

5)I dialoghi memorabili. Alcuni hanno criticato l'ostentata drammaticità degli stessi, una ricerca spinta dell'epica – la si ritrova in modo evidente anche nelle reiterate e simpatiche scene di “marcia di gruppo” in slow motion – che alla lunga risulterebbe eccessiva. Per me, invece, tutto ciò è ben equilibrato dai frequenti e chirurgici momenti dissacranti, fra cui appunto molti dialoghi, che spezzano l'aurea “drammatica” come un coltello nel burro.

6)La regia. Di altissimo livello considerando che stiamo parlando di una serie.

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