Terra rude, autentica, a tratti
desertica e a tratti selvaggia, l'Andalusia si prestava bene a un
tour on the road, di quelli che a 30 anni ti puoi ancora permettere,
fisicamente e mentalmente. Ma sali le scalette dell'aereo a Siviglia,
per l'ultima volta colpito dal brusco contraccolpo freddo-caldo
causato dall'aria condizionata, che aggrotti la fronte e pensi che
nove giorni, seppur pieni zeppi, sono forse troppo pochi per
scoprirla tutta.
E' rammarico, è la nostalgia. E' sempre la stessa
storia quando si va al sud, che sia Italia o Spagna.
No, non è solo nostalgia.
In fondo,
viaggiando in macchina sugli infiniti stradoni desolati (che
rimpiangeremo da qui alle prossime ferie, tutte le volte che
passeremo da Olmo) si avverte con consapevolezza che l'Andalusia,
considerata comunemente e credo a ragione una delle regioni più
“veraci” della Spagna, sia grande quattro volte la Lombardia. Non
occorre aggiungere altro. Tradizioni, dialetti, stili di vita, climi
incredibilmente diversi. Un scenario da Mille e una notte, nel senso
di mille storie da raccontare con mille personaggi diversi che si
muovono in mille contesti diversi.
PRIMA STORIA: MALAGA (e Costa del Sol)
Caldo umido. Appiccicoso. Il forte
odore di salsedine (impressionante la sensazione che si
ha al ritorno
di una gita di mezza giornata al Caminito del Rey, si risorge dal
parcheggio e sembra di entrare in pescheria). E il complesso evidente
per la pulizia, con un esercito di mezzi della nettezza urbana (non è
una espressione figurata: esiste proprio un servizio d'ordine della
Polizia che scorta il passaggio dei netturbini) che non riesce mai
del tutto nell'impresa bonificatrice, resa più difficile dalla movida molesta e da
pavimenti umidicci.
Eppure, Malaga sorride. Poco visitata
dagli italiani, che effettivamente hanno le loro Malaghe a casa
propria (vi dice qualcosa una certa Rimini?), è una città vivace ma
non pacchiana, che si sforza di rimediare ai danni
dell'urbanizzazione con opere imponenti in zona porto (Muelle Uno) e
dà spazio a mostre importanti (Picasso e Centro Pompidou). Si è
attratti dal vortice, da questo clima di festa, dove si mangia bene e
si beve altrettanto, in un'atmosfera che pur nelle contraddizioni del
turismo di massa riesce a mantenersi genuina.
Visitiamo poco dei dintorni: la
Marbella chic, che comunque una passeggiata di due ore la merita per
i suoi vicoli in fiore, e il Caminito del Rey, tappa quasi obbligata
e osannata, che consiglio di fare senza guida e godendosi di più il
contesto circostante, nel quale primeggia il caratteristico laghetto.
SECONDA STORIA: COSTA DE LA LUZ
L'oceano. Nel 2018 ho visto più volte
l'oceano che Collestrada (tipica frase da post su Twitter). Per la
prima volta ci ho fatto il bagno, sarà una banalità ma è stata una
sensazione particolare, direi suggestiva. Spiagge into-the-wild
frequentate da nudisti, qualche chiringuito qua e là con le assi di
legno traballanti, acqua che ti inghiotte, freddissima, "dura" come il
marmo. La Costa de la Luz, da Tarifa su su fino a Cadiz, non è
entrata ancora nel business del turismo o forse non lo conosce
proprio. Il che non è un difetto, anzi, però ciò non fa rima con
comodità, a partire dalla ricerca dell'alloggio (non esistono
alberghi, solo qualche ostello o villaggi/residence): noi però siamo
stati fortunati, non tanto nel trovare un appartamento a Barbate,
paese di pescatori e famiglie anziane che la notte frescheggiano fino
alle due sull'ingresso di casa, quanto nell'averlo trovato vicino a
tre supermercati, un negozio di cinesi e un distributore.
Nei dintorni, oltre alle spiagge della
bassa Cosa de la Luz (Bolonia, Playa del Canuelo, Los
Canos de Meca), abbiamo il piacere di vedere Cadiz e Jerez de
la Frontera che su tutte le guide super-informate è presentata come
l'emblema dell'Andalusia. Noi abbiamo trovato quasi tutto chiuso,
bodegas del vino cerrade con chiavistello, negozi di souvenir
magrebini: ecco cosa intendevo quando parlavo della “comodità”
del turismo...
Sulla tratta dal Mediterrano
all'oceano, da segnalare la tappa intermedia di Gibilterra: un
pomeriggio di Ferragosto azzeccatissimo, alla conquista della Rocca con vista Africa e
delle famigerate scimmie, che non si sa se soffrono o soffriranno in
futuro in questo ruolo di prodotto turistico da consumare a suon di
selfie e noccioline, ma a vederle dal vivo parrebbe di no. L'uomo è
un animale sociale, ha bisogno di compagnia, e l'uomo proviene dalle
scimmie, no?
TERZA STORIA: SIVIGLIA
Al netto dei terribili calessi (che
fanno il paio con le scimmie gibilterriane, solo che qui i cavalli
sono “costretti” a trotterellare nel traffico di tangenziale), e
degli italiani spuntati all'improvviso come i funghi dopo un
temporale di fine agosto, Siviglia è una città bellissima. Una
delle più belle che abbia mai visitato. Pulita, armoniosa, con
grandi viali alberati (ci sono migliaia di aranci) riservati a pedoni
e ciclisti, interrotti da dedali di vicoli colorati formati da
palazzine stuccate con gusto e dedizione. L'Avenida de Constitucion è
per antonomasia il perfetto boulevard spagnolo e, forse, europeo.
Plaza de Espana è una cartolina, forse troppo cartolina nel senso
che nell'evidente ricerca estetica non si può non notare che si
tratta di un luogo “artefatto” (non è viva e vissuta come Piazza
del Campo o Alexander Platz, tanto per dirne due a caso, insomma) ma
si presta così bene ai filtri Instagram che qualsiasi spettatore non
può che restare a bocca aperta.
Siviglia è organizzata bene e offre
diverse opzioni di fruibilità, molti siti hanno “finestre gratis”
in certi momenti della settimana, anche se magari a orari strategici come la Plaza de Toros, free entry dalle 3 alle 7 del
lunedì pomeriggio...
Appunto, il caldo. Negozi oscurati e
tappati ermeticamente con il condizionatore sparato a mille,
nebulizzatori nei dehors, siesta che si prolunga fino alle 6, nel
weekend addirittura fino alle 8 di sera, ghiaccio su ogni bicchiere
(americanata poco gradita tanto quale il free refill dei fast food).
Il tutto accentuato dall'esodo estivo degli indigeni (come
biasimarli!): ad agosto Siviglia appare una città quasi priva di
anima, oppressa dal sole, che pullula di comparse (i
turisti) e non di veri personaggi (i residenti), una variabile che
non saprei giudicare se positiva o negativa ma sicuramente
significativa perché è una prospettiva “altra”, come se fossimo
dietro le quinte del palcoscenico.
Un palcoscenico variopinto come quello dell'Andalusia, che risente fortemente degli influssi arabi, dove primeggiano i simboli ancestrali dalle radici così profonde da non vederne neanche l'origine, ai quali sono dedicati culti quasi religiosi (il toro, il flamenco, il rito del vino dolce, la siesta, le tapas, il tonno rosso, la corrida, etc etc).
Tanto ancora ci sarebbe da scoprire nei pueblos blancos e nei riti di paese, ma la sensazione è che l'esperienza, oltre che tempo, richieda coraggio, fatica, pazienza, spirito di osservazione e voglia di approfondire.
L'Andalusia non è chiusa. Non è scorbutica né misteriosa: è solo complicata. L'Andalusia è una terra tutta da scoprire e condividere, il problema è che forse non ce lo meritiamo.






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